L’alchimista

3631170_246471.jpg

Descrizione

L’Alchimista” è la storia di una iniziazione. Ne è protagonista Santiago, un giovane pastorello andaluso il quale, alla ricerca di un tesoro sognato, intraprende quel viaggio avventuroso, insieme reale e simbolico che lo porterà fino all’Egitto delle Piramidi. E sarà proprio durante il viaggio che il giovane, grazie all’incontro con il vecchio Alchimista, salirà tutti i gradini della scala sapienziale: nella sua progressione sulla sabbia del deserto e, insieme, nella conoscenza di sé, scoprirà l’Anima del Mondo, l’Amore e il Linguaggio Universale, imparerà a parlare al sole e al vento e infine compirà la sua Leggenda Personale.

https://www.lafeltrinelli.it/libri/paulo-coelho/l-alchimista-ediz-speciale/9788845269110

Pubblicità

The Conundrum of the Workshops

When the flush of a new-born sun fell first on Eden’s green and gold,
Our father Adam sat under the Tree and scratched with a stick in the mould;
And the first rude sketch that the world had seen was joy to his mighty heart,
Till the Devil whispered behind the leaves, “It’s pretty, but is it Art ?”

Wherefore he called to his wife, and fled to fashion his work anew –
The first of his race who cared a fig for the first, most dread review;
And he left his lore to the use of his sons – and that was a glorious gain
When the Devil chuckled “Is it Art ?” in the ear of the branded Cain.

They fought and they talked in the North and the South, they talked and
they fought in the West,
Till the waters rose on the pitiful land, and the poor Red Clay had rest –
Had rest till that dank blank-canvas dawn when the dove was preened to start,
And the Devil bubbled below the keel: “It’s human, but is it Art ?”

They builded a tower to shiver the sky and wrench the stars apart,
Till the Devil grunted behind the bricks: “It’s striking, but is it Art ?”
The stone was dropped at the quarry-side and the idle derrick swung,
While each man talked of the aims of Art, and each in an alien tongue.

The tale is as old as the Eden Tree – and new as the new-cut tooth –
For each man knows ere his lip-thatch grows he is master of Art and Truth;
And each man hears as the twilight nears, to the beat of his dying heart,
The Devil drum on the darkened pane: “You did it, but was it Art ?”

We have learned to whittle the Eden Tree to the shape of a surplice-peg,
We have learned to bottle our parents twain in the yolk of an addled egg,
We know that the tail must wag the dog, for the horse is drawn by the cart;
But the Devil whoops, as he whooped of old: “It’s clever, but is it Art ?”

When the flicker of London sun falls faint on the Club-room’s green and gold,
The sons of Adam sit them down and scratch with their pens in the mould –
They scratch with their pens in the mould of their graves, and the ink and the anguish start,
For the Devil mutters behind the leaves: “It’s pretty, but is it Art ?”

Now, if we could win to the Eden Tree where the Four Great Rivers flow,
And the Wreath of Eve is red on the turf as she left it long ago,
And if we could come when the sentry slept and softly scurry through,
By the favour of God we might know as much – as our father Adam knew!

Rudyard Kipling

Leaves of Grass

A child said, What is the grass? fetching it to me with full
hands;
How could I answer the child? I do not know what it is

any more than he.

I guess it must be the flag of my disposition, out of hopeful
green stuff woven.

Or I guess it is the handkerchief of the Lord,
A scented gift and remembrancer designedly dropt,
Bearing the owner’s name someway in the corners, that we
may see and remark, and say Whose?

Or I guess the grass is itself a child, the produced babe of

the vegetation.

Or I guess it is a uniform hieroglyphic,
And it means, Sprouting alike in broad zones and narrow
zones,
Growing among black folks as among white,
Kanuck, Tuckahoe, Congressman, Cuff, I give them the
same, I receive them the same.

And now it seems to me the beautiful uncut hair of graves.

Tenderly will I use you curling grass,
It may be you transpire from the breasts of young men,
It may be if I had known them I would have loved them;
It may be you are from old people, or from offspring taken

soon out of their mother’s laps,
And here you are the mothers’ laps.

This grass is very dark to be from the white heads of old
mothers,
Darker than the colorless beards of old men,
Dark to come from under the faint red roofs of mouths.

O I perceive after all so many uttering tongues,
And I perceive they do not come from the roofs of mouths
for nothing.

I wish I could translate the hints about the dead young

men and women,
And the hints about old men and mothers, and the offspring
taken soon out of their laps.

What do you think has become of the young and old men?
What do you think has become of the women and
children?

They are alive and well somewhere,
The smallest sprouts shows there is really no death,
And if ever there was it led forward life, and does not wait
at the end to arrest it,
And ceas’d the moment life appear’d.

All goes onward and outward, nothing collapses,
And to die is different from what any one supposed, and
luckier.

 

Che cos’è l’erba? mi chiese un bambino, portandomene a

piene mani;

Come potevo rispondergli? Non so meglio di lui che cosa

sia.

Suppongo che sia lo stendardo della mia vocazione, fatto

col verde tessuto della speranza.

O forse è il fazzoletto dell Signore,

Un ricordo profumato lasciato cadere di proposito,

Con la cifra del proprietario in un angolo sicché possiamo

vederla e domandarci di Chi può essere?

 

O forse l’erba stessa è un bambino, il bimbo generato dalla

vegetazione.

 

O un geroglifico uniforme

Che voglia dire, crescendo tanto in ampi spazi che in strette

fasce di terra,

Fra bianchi e gente di colore,

Canachi, Virginiani, Membri del Congresso, gente comune,

io do loro la stessa cosa e li accolgo nello stesso modo.

E ora mi appare come la bella capigliatura delle tombe.

 

Ti userò con gentilezza, erba ricciuta,

Forse traspiri dal petto di giovani uomini,

Che avrei potuto amare, se li avessi conosciuti,

Forse provieni da vecchi, o da figli ghermiti appena fuori

dai ventri materni,

Ed ecco, sei tu il ventre materno.

 

Quest’erba è troppo scura per uscire dal bianco capo delle nonne,

Più scura della barba scolorita dei vecchi,

È scura per spuntare dal roseo palato delle bocche.

Oh nonostante tutto io sento il parlottio di tante lingue,

E comprendo che non esce dalle bocche per nulla.

Vorrei poter tradurre gli accenni ai giovani morti, alle

fanciulle,

Gli accenni ai vecchi e alle madri, ai rampolli ghermiti ai

loro ventri.

Che cosa pensate sia avvenuto dei giovani e dei vecchi?

E che cosa pensate sia avvenuto delle madri e dei figli?

Vivono e stanno bene in qualche luogo,

Il più minuscolo germoglio ci dimostra che in realtà non vi

è morte,

E che se mai c’è stata conduceva alla vita, e non aspetta il

termine per arrestarla,

E che cessò nell’istante in cui la vita apparve.

Tutto continua e tutto si estende, niente si annienta,

E il morire è diverso da ciò che tutti suppongono, e ben

più fortunato.

 

Walt Whitman Foglie d’erba

A poison tree

I was angry with my friend

I told my wrath, my wrath did end;

I was angry with my foe

I told it not, my wrath did grow.

And I watere’d it in fears

Night and morning with my tears;

And I sunned it with smiles

And with soft deceitful wiles.

And it grew both day and night,

Till it bore an apple bright;

And my foe beheld it shine,

And he knew that it was mine,

And into my garden stole

When the night had veil’d the pole:

In the morning glad I see

My foe outstretch’d beneath the tree.

Un albero avvelenato

 Ero adirato col mio amico,

Dissi la mia ira, la mia ira finì;

ero adirato col mio nemico,

non la dissi, la mia ira crebbe.

E l’ho bagnata di timori,

notte & giorno con le mie lacrime,

e le ho dato il sole di sorrisi

e dolci ingannevoli astuzie.

 Ed è cresciuta sia di giorno che di notte,

finché ha portato una mela luminosa;

ed il mio nemico la vide risplendere,

e seppe che era mia.

 E penetrò nel mio giardino

quando la notte aveva velato il cielo;

nella mattina lieto vedo

il mio nemico steso morto sotto l’albero.

William Blake

Se i dolci facessero dimagrire, io sarei anoressica

Viviamo in una società in cui chi ruba dieci euro è un ladro e chi ne ruba dieci milioni è un milionario, in cui gli scandali fanno curriculum professionale ed essere indagati è un’eclatante pubblicità che spalanca le dorate porte della fama.
Una società impastoiata nei luoghi comuni e dominata dalla voglia di apparire. Se vivesse oggi, Amleto non si chiederebbe più: “Essere o non essere”, bensì: “Essere o apparire?”. E la risposta sarebbe: “Apparire”…specialmente in TV. Vallette, veline, prezzemoline varie incarnano l’ideale irraggiungibile di migliaia di ragazze ed i toy-boys, i tronisti sono la massima aspirazione degli adolescenti.
Stilisti, dalla sessualità quantomeno ambigua, impongono un ideale di bellezza androgina e scheletrica, e le riviste ci propinano ricette da mille calorie a cucchiaiata e nella pagina seguente ci tartassano con diete che prevedono quotidianamente una mela, uno yoghurt, un pomodorino scondito ed acqua a volontà.
La giovinezza è l’ultimo mito, la frontiera che dovrebbe essere perenne come i pini del Golfo napoletano.
Insomma, viviamo in una società assurda, in cui chi ha raggiunto il traguardo dei famigerati “anta” si strema in palestra per rassodare gli addominali e segue corsi di yoga per non soccombere all’abominevole realtà del tempo che passa.
Siamo “vittime strumentali” di una falsa demagogia dell’apparenza, in cui le persone normali, con problemi e necessità normali, si sentono fuori luogo, trascurate, messe da parte, vergognose della loro “banalità”, che – poi -é lo svolgersi naturale della vita.
Che fare? Arrabbiarsi? Amareggiarsi? Intristirsi?…
…Ma no, non affliggiamoci: prendiamola con filosofia, anzi, prendiamola con un sorriso liberatorio che ci ridia l’orgoglio di accettarsi e di infischiarcene dei diktat dei vecchi e nuovi guru dell’effimero, perchè – è risaputo -“una risata li seppelirà”.
Introduzione di Se i dolci facessero dimagrire, io sarei anoressica
Aforismi spiritosi per golose e golosi
Giusi Vanella

Mencacci sulla città

http://www.oikonomia.it/oikonomia/pages/2009/2009_ottobre/recensione_2.htm

Luca Mencacci (autore di Eclissi dell’utopia urbana, Città Nuova, Roma, 2009) sulla città

E’evidente che il tema della città occupi ancora un posto di rilievo nell’agenda dei dibattiti culturali contemporanei. Non si capirebbe, altrimenti, perché il mio volume su “L’eclissi dell’utopia urbana” abbia potuto attrarre gli interessi di alcuni recensori capaci (Roberto Faben su Il Messaggero, Maurizio Schoepflin sul Giornale di Brescia,
Giancristiano Desiderio su Liberal). Se l’approfondimento condotto da Antonio Riccio e ultimo in ordine di apparizione, si situa tuttavia fra i più stimolanti, giacché le sue argomentazioni sono destinate a rilanciare il dibattito sui fondamenti del sapere in un’epoca contrassegnata dalla crisi dei progetti intellettuali basati sugli
artificiali confini disciplinari.

Dalle suggestioni della recensione di Riccio, dunque, ho potuto trarre ulteriori spunti per
proseguire nella ricerca che ho incominciato già da qualche anno.

“Cos’é la città oggi per noi”?Questa la domanda, sempre attuale, che si pone Italo Calvino nella presentazione del suo stesso libro Le città invisibili. Una domanda cui prudentemente risponde con enfasi poetica, piuttosto che con rigorosi chiarimenti. “Le città sono un insieme di molte cose: di memoria, di desideri, di segni, di un linguaggio”. Sembra limitarsi a dire Calvino. Del resto, la stesse scienze sociali, nella loro pur breve storia, si sono dovute accontentare di soluzioni parziali della definizione del fenomeno urbano, esaltando ora la dimensione demografica (Wirth) ora quella economica (Weber) ora quella psicologica (Simmel). “Le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di economia, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi.” Ma cosi facendo Calvino non elude la risposta, piuttosto rimanda a un intimo legame spirituale, prima ancora che culturale, tra la forma della città e la vita dei suoi cittadini, tra architettura e storia, tra urbanistica e sociologia.

Composta di materiali che il passato ha sedimentato lungo i suoi percorsi, nei suoi pieni come nei suoi vuoti, punteggiata dalla dialettica incessante tra costruzione, distruzione e ricostruzione, la città può essere interrogata come un testo in cui sono impressi i significati del tempo” sottolinea Gabriella Paolucci nel suo Libri di pietra. Città e memorie sostenendo una prospettiva semiologica dello spazio urbano, che affonda le sue radici nelle intuizioni della semiologia classica di Roland Barthes e di Umberto
Eco. Per entrambi la città poteva essere ridotta a un complesso insieme di segni, di significanti, che si riferiscono alla forma del tessuto urbano o agli elementi architettonici, e di significati, che invece fanno riferimento al contenuto e che sono ai primi attribuiti da tutti coloro che con essa hanno a che fare, dal primo dei fondatori all’ ultimo dei migranti. Un’impostazione volta a leggere la città in termini testuali, che può apparire ancora oggi originale, per certi versi anche eccentrica, ma ugualmente capace di trovare importanti conferme in discipline più ortodosse all’ analisi e alla comprensione del fenomeno urbano. Se infatti Barthes nel suo saggio “Semiology and the Urban” anticipa che “La città è un discorso e questo discorso è davvero un linguaggio”, Giulio Claudio Argan nel suo Storia dell’arte come storia della città, arriva a sostenere una precisa analogia tra la costruzione dello spazio urbano e la formazione del linguaggio. Se Eco può ammonire che “ricordare è come costruire, è come viaggiare attraverso lo spazio costruito”, allora Giandomenico Amendola ne “La città postmoderna” può finalmente affermare che “la memoria è incapsulata nello spazio e ha bisogno di esso. La città resta il principale libro su cui la storia possa essere scritta e soprattutto
letta”.

La forma urbana tuttavia non si limita a riflettere o raccontare il passato di una comunità. Invece, la ricapitola, o la reimpagina se vogliamo, la ripropone alla stregua di un palcoscenico, o di una biblioteca, dove la conservazione e la rappresentazione,
talvolta anche l’ostentazione, impongono non semplicemente una rilettura, continua anche se provvisoria, ma una vera e propria interazione comunicativa, interattiva e ipertestuale, a chiunque si trovi a percorrere le sue strade o ad attraversare le sue piazze.

Ritorna allora in mente l’intuizione letteraria di Calvino, quando sostiene che “la città non dice il suo passato, lo contiene come linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, nei corrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle  bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature intagli e virgole.” Ma non e solo al flaneur di Baudelaire, prima ancora che a quello di Benjamin, che la città si rivolge. Non attrae  solo il passante curioso che vaga senza meta per i suoi quartieri un po’ dandy, un po’ clochard, piuttosto invita alla conversazione ogni suo abitante come ogni suo fruitore, tanto il cittadino quanto il visitatore, permettendosi di offrire ospitalità, ogni volta diversa, alla storia personale o alla esperienza di vita di ciascuno di essi. La città stessa in un gioco di riflessi senza soluzione di continuità fa tesoro di ogni incontro come di ogni utenza e restituisce l’eco dei commenti, cristallizzandone la forma nel tempo.

I passi allora possono essere paragonati alle parole, le frasi a passeggiate e “gli sguardi sulla, nella e dalla città fungono più che mai da vera e propria riscrittura del testo urbano; soprattutto quando essi prendono forma artistica e narrativa e la città viene vista e mostrata  attraverso gli occhi degli artisti, degli scrittori dei poeti dei registi e dei loro personaggi”. Suggerisce Bruna Mancini Sguardi su Londra. Immagini di una città mostruosa ricordando come l’architetto e urbanista statunitense Kevin Lynch, allievo di Frank Lloyd Wright, fosse solito affermare come i romanzieri abbiano contribuito a
costruire le città in cui viviamo nella stessa misura dei costruttori che le hanno edificate.

Evidentemente, se si vuole considerare la città un testo, non si può trascurare che l’aspetto transitivo del rapporto che lega la lettura, o se vogliamo la rilettura, alla scrittura. Giovanni Puglisi nel saggio “La città e il cittadino: immagini di uno specchio”, contenuto nella raccolta significativamente intitolata “Le città di carta”, evidenzia il rapporto strettissimo che lega la città, l’autore di un romanzo e il lettore. “ Il triangolo che si viene cosi a delineare e rettangolo, in quanto – metaforizzando alcune nozioni di geometria – l’immagine costruita sull’ipotenusa, la città è equivalente alla somma delle immagini costruite sui due cateti, ovvero quella dell’autore e del suo lettore”. Soprattutto sottolinea come il romanzo possa rappresentare un eccellente mezzo di espressione per tutti quegli autori che vogliono declinare il proprio impegno letterario oltre la dimensione individuale spingendolo verso un orizzonte pubblico. “Le scritture narrative hanno segnato spesso sia lo stato dei costumi e del dibattito etico politico sia il valore e lo spessore del coinvolgimento etico degli intellettuali nella costruzione urbana e nella vita civile della loro città. Ciò che è entrato in gioco è sempre stato comunque il rapporto strettissimo tra il testo letterario, la città della quale esso si fa ermeneuta o portavoce e il cittadino, che nelle diverse fattispecie può essere di volta in volta l’autore o il lettore”.

Poiché l’attenzione verso il passato conduce sempre all’analisi del presente e provoca spesso la progettazione del futuro, le immagini, che la città ci offre con la sua architettura, e le suggestioni, che lei riflette attraverso la letteratura, assurgono a intima chiave di accesso dell’animo di coloro che la costruiscono o la modificano, la vivono o la visitano, la ricordano o la immaginano. E forniscono soprattutto una privilegiata fonte interpretativa delle loro aspettative e dei loro timori, cosi come dei loro entusiasmi e delle loro delusioni, interessante fonte di analisi sociologiche.

Attribuire all’immaginario letterario una sua peculiare funzione epistemologica nel campo sociale non sembra essere poi un’impostazione del tutto arbitraria e autoreferenziale. Se non come fonte, almeno come sussidio. Rinunciarvi comporta il rischio di ancorare la ricerca sociologia al presente, privando la città di una sua dimensione fondamentale, quella temporale, dove le speranze e le delusioni trovano il loro incessante e significativo avvicendamento.

Del resto, ampia produzione accademica testimonia come l’esame e l’uso degli immaginari evocati dalla narrazione letteraria sia stato strumento fondamentale di analisi e conoscenza del sociale, adottato da una lunga teoria pensatori definibili come classici del pensiero sociologico. Non è certo questa la sede per citarli tutti o anche solo i maggiori, magari addentrandosi nell’elenco, invero esauriente quanto sorprendente, redatto nello studio I sociologi e lo spazio letterario di Fabio Tarzia. Maggiore rilevanza sembra invece attribuibile alle motivazioni che possono averli indotti a indagare una simile fonte. A tale proposito Gabriella Turnaturi ne l’Immaginazione sociologica e immaginazione letteraria sostiene che “la fascinazione intellettuale che il romanzo, la finzione letteraria può esercitare su chi tenti una lettura delle società e dei progressi sociali nasce soprattutto da quel suo dispiegare dinanzi agli occhi, come un caleidoscopio, più mondi, più realtà. Il romanzo può funzionare come fonte di ideazione, come interruttore che accende idee e ipotesi embrionali, confuse e troppo astratte che nessuna survey o ricerca empirica riesce a concretizzare altrettanto vividamente”.

La consapevolezza dell’autore e la complicità del lettore, contribuiscono a determinarne il rilievo sociologico, ovvero la sua capacità di evocare rappresentazioni e metafore, anche in concorrenza con altri media. Per questo, la sociologa della letteratura Graziella Pagliano, nel suo Profilo di sociologia della letteratura, evidenzia che il testo letterario, “se riflette la realtà, la riflette in modo incompleto e parziale, ma se opera ciò esplicitamente, assolve a un compito non sostituibile con la conoscenza scientifica (che ha i suoi propri strumenti), cioè un compito rivelatore, in quanto la frammentazione dell’immagine evoca la stratificata complessità della realtà.”

In quello che oggi viene sovente definito come lo spazio dei flussi il luogo urbano, non semplicemente la città, meno che mai la metropoli, restituisce il senso della posizione. Attraverso la sua feconda dialettica tra le pietre e le parole alimenta le aspirazioni ideali della sua cittadinanza, conservandone la misura della realizzabilità e subendone i limiti della realizzazione.

Se allora si vuole sostenere che scrivere possa equivalere a costruire, leggere potrà significare vivere, camminare e abitare gli spazi urbani. Quegli stessi spazi reali e locali che Bauman chiama “la discarica di problemi causati dalla globalizzazione” ove oggi è possibile rinvenire lo scarto tanto dei tentativi falliti di dare soluzioni locali alle contraddizioni globali quanto del confronto tra la città immaginata come ideale e quella realizzata come possibile.
Uno scarto la cui cognizione potrà assurgere a oggetto, inesauribile sin dai tempi di Zenone, per una nuova atipica sociologia, a metà strada tra quella urbana e quella della letteratura. La sociologia degli scarti.

post editing:Ines Palumbo

to be or not to be

 Hamlet, Act III, Scene I [To be, or not to be]

William Shakespeare1564 – 1616

To be, or not to be: that is the question:
Whether ‘tis nobler in the mind to suffer
The slings and arrows of outrageous fortune,
Or to take arms against a sea of troubles,
And by opposing end them? To die: to sleep;
No more; and by a sleep to say we end
The heart-ache and the thousand natural shocks
That flesh is heir to, ‘tis a consummation
Devoutly to be wish’d. To die, to sleep;
To sleep: perchance to dream: ay, there’s the rub;
For in that sleep of death what dreams may come
When we have shuffled off this mortal coil,
Must give us pause: there’s the respect
That makes calamity of so long life;
For who would bear the whips and scorns of time,
The oppressor’s wrong, the proud man’s contumely,
The pangs of despised love, the law’s delay,
The insolence of office and the spurns
That patient merit of the unworthy takes,
When he himself might his quietus make
With a bare bodkin? who would fardels bear,
To grunt and sweat under a weary life,
But that the dread of something after death,
The undiscover’d country from whose bourn
No traveller returns, puzzles the will
And makes us rather bear those ills we have
Than fly to others that we know not of?
Thus conscience does make cowards of us all;
And thus the native hue of resolution
Is sicklied o’er with the pale cast of thought,
And enterprises of great pith and moment
With this regard their currents turn awry,
And lose the name of action.—Soft you now!
The fair Ophelia! Nymph, in thy orisons
Be all my sins remember’d.

https://www.poets.org/poetsorg/poem/hamlet-act-iii-scene-i-be-or-not-be

Jane Eyre…

“Women are supposed to be very calm generally; but women feel just as men feel: they need exercise for their faculties, and a field for their efforts as much as their brothers do; they suffer from too rigid a restraint, too absolute a stagnation, precisely as men would suffer”.
In genere si suppone che le donne siano molto calme; ma le donne hanno gli stessi sentimenti degli uomini: hanno bisogno di esercitare le loro facoltà e di una palestra per il loro sforzi, al pari dei loro fratelli; soffrono per una costrizione troppo rigida, per un troppo completo ristagno esattamente come soffrirebbero gli uomini”
Jane Eyre XII capitolo

quando mi chino…

Quand je me penche sur votre âme, pendant que vous dormez, et écouter, avec mon oreille sur votre poitrine découverte, votre coeur calme, paraît je se rassembler, dans sa pulsation profonde, le secret du centre du monde.
Paraissez je que légions d’anges, sur les chevaux célestes – comme quand à nuit profonde nous écoutons, sans haleine et avec l’oreille de monde, un trot lointain qu’il arrive jamais – que les légions d’anges viennent pour vous, de lointain – comme les Rois Magi à la naissancà  éternelle de notre amour – vient pour vous, de lointain, m’apporter, dans votre rêve, le secret du centre du ciel.

QUANDO MI CHINO di J.R. Jimenez

Quando mi chino sulla tua anima, mentre dormi, e ascolto, col mio orecchio
sul tuo petto nudo,
il tuo cuore tranquillo, mi sembra
di cogliere, nel suo battito profondo,
il segreto del centro
del mondo.
Mi sembra
che legioni d’angeli,
su cavalli celesti
– come quando a notte
fonda ascoltiamo, senza respiro
e con l’orecchio a terra,
un lontano trotto che mai arriva –
che legioni d’angeli
vengano per te, da lontano
– come i Re Magi
alla nascita eterna
del nostro amore –
vengano per te, da lontano,
a portarmi, nel tuo sogno,
il segreto del centro del
cielo.